“Se uno farà una lesione al suo prossimo, si farà a lui come egli ha fatto all’altro: frattura per frattura, occhio per occhio, dente per dente; gli si farà la stessa lesione che egli ha fatta all’altro. Chi uccide un capo di bestiame lo pagherà; ma chi uccide un uomo verrà messo a morte […] poiché io sono il Signore vostro Dio” è quanto Mosè “riferì agli Israeliti […] così gli Israeliti eseguirono quello che il Signore aveva ordinato a Mosè” dall’Antico testamento, Levitico 24, 19-23. Le disposizioni ricevute da Mosè fondano i principi della giustizia secondo le indicazioni ricevute direttamente da Dio … certo è doveroso domandarsi se chi uccide un uomo perché questo ha ucciso dovrà lui stesso essere ucciso e così all’infinito oppure se essere l’esecutore di una volontà superiore sollevi il secondo assassino dalla responsabilità del gesto. Domanda retorica, ovviamente, che sia Dio o lo Stato, ce lo insegna anche Hegel, a disporre della vita della morte o di qualsiasi altra cosa, la responsabilità è sublimata e la vendetta si trasforma in giustizia. Francis Bacon affermava che “La vendetta è una specie di giustizia primitiva alla quale, quanto più la natura umana ricorre, tanto più la legge dovrebbe mettere fine”, questo può costituire un principio etico incontrovertibile in base al quale se la legge istituzionalizza la vendetta questa smette di essere “giustizia primitiva” per divenire Giustizia con l’iniziale maiuscola?
Secondo Nietzsche, come ammonisce in Al di là del bene e del male: “Concepire e porre in atto un pensiero di vendetta significa essere presi da un violento accesso di febbre, che però passa; ma avere un pensiero di vendetta senza la forza e il coraggio di porlo in atto, significa portarsi addosso una sofferenza cronica, un avvelenamento del corpo e dell’anima”. In effetti il bisogno di vendicarsi di un torto subito è un’urgenza istintiva che ogni essere umano avverte ma la legge ci riprende, pacata e saggia, insegnandoci che non è lecito “farsi giustizia da soli”, è un comportamento colpevole e antisociale; punire, che è poi un altro modo per vendicare un torto, spetta alla Giustizia, alla Magistratura, allo Stato, alla Legge. Ma se questo non avviene? Se il torto si perpetua anche ad opera delle istituzioni? Emil Cioran nel suo “L’inconveniente di essere nati” afferma che “Più di uno squilibrio scaturisce da una vendetta che abbiamo troppo a lungo differito. Osiamo esplodere! Qualunque malessere è più sano di quello provocato da una rabbia accumulata”. Una differente possibilità è suggerita dalla saggezza orientale: sedersi sulla riva del fiume ad attendere il passaggio del cadavere di chi ti ha fatto torto. Mi sembra un’ipotesi improbabile per un l’agire di un occidentale. In ogni caso sarebbe opportuno domandarsi: se la vendetta non l’ho consumata io ma “il fiume” questo mi solleva dalla “colpa” dell’averla desiderata ed attesa? La rende giusta e lecita? È un sentimento corretto la gioia che provo nell’osservare il corpo galleggiare finalmente punito?
L’alternativa suggerita dalla saggezza, questa volta, occidentale e cristiana, è il perdono. In effetti, se davvero si riesce a perdonare, si libera il cuore dalla sofferenza della vendetta e si impedisce al dolore di prolungarsi oltre il tempo dell’ingiustizia subita, anche se, per dirla con le parole di Roberto Gervaso, “chi dice che la miglior vendetta è il perdono non ha mai subito un torto”. Sempre il desiderio di vendetta è originato dalla consapevolezza di essere vittima di una prevaricazione alla quale non si può reagire adeguatamente poiché chi l’ha consumata è troppo forte, che sia un altro essere umano, il Potere, addirittura Dio o, che è lo stesso, la Natura. E allora che fare? Covare risentimento? Consumare la vendetta? Metabolizzare ed esorcizzare il rancore? Domande complesse che suggeriscono ulteriori interrogativi: sei più forte quando riesci a vendicarti o quando perdoni? E se non ti vendichi perché non ci riesci sei buono? E se perdoni solo perché non hai abbastanza energia per odiare? Ma se chi ti ha fatto del male è per te come una mosca fastidiosa non è più ovvio schiacciarla o scacciarla che provare ad esserle indifferente? Perdonare perché non si hanno alternative è vero perdono? Questi ultimi interrogativi mi riportano ancora una volta alla tanto controversa parabola dei talenti, il collegamento è assolutamente libero ma, mi sembra, interessante. Se il “talento” ricevuto in dono dal Signore è la forza ed il coraggio per reagire in prima persona ad un torto subito può essere lecito interrogarsi su quale dovrà essere l’impiego di tale risorsa? Intendo: è più rispondente alle aspettative del generoso elargitore di talenti che ne impieghi al fine di accrescerne il valore e sarò ripreso nel caso mi limiti a “conservarlo nel sotto suolo della mia anima” o verrò premiato per aver sopportato in silenzio perdonando quando avrei potuto reagire? Non potremmo leggere la questione in termini di libertà ed assunzione di responsabilità? Se essere libero significa scegliere e sapersi autore e protagonista del gesto, non è nostro dovere ascoltare i dati più profondi del nostro essere? Oppure è meglio ascoltare il suggerimento baconiano e rinnegare le radici istintuali in nome di un più razionale approccio? Torniamo all’incipit.
Il passo del Levitico di apertura non può che suggerirci la risposta cristiana, chi perdona sarà premiato ed avrà accesso alla beatitudine eterna, il reo dell’ingiustizia sarà condannato alle fiamme dell’inferno. A parte che non mi sembra una soluzione così diversa dall’attesa sulla riva del fiume, non posso che domandarmi: siamo certi che i beati da lassù non si macchieranno del terribile peccato del piacere nell’assistere alle sofferenze dei propri aguzzini? Mi sembra che tutto questo rimandi alla transvalutazione di tutti i valori, al sovvertimento del contro natura che il già citato Nietzsche ha più volte denunciato. Mi sembra che, al contrario della tradizionale interpretazione della figura del divino assolutamente lontana dall’uomo e umanizzata nella nuova versione del “Padre amoroso”, sia molto più “umano” il Dio del Levitico anche se potrebbe apparire feroce nelle sue disposizioni. Arriviamo ad oggi: quante volte abbiamo ascoltato i parenti di vittime che hanno subito morte violenta o feroci ingiustizie affermare: “Non vogliamo vendetta, chiediamo giustizia”. La frase, replicata come un mantra dagli intervistati, accomuna oramai tutte le vittime, lo spettatore già si attende quelle parole per assentire compreso e compassionevole; “Il conformismo è la scimmia dell’armonia” griderebbe inorridito Ralph Waldo Emerson. Ma che giustizia è avere in cambio alcuni o molti anni di libertà a chi si è preso la vita di mia figlia o di mio padre? Ed una volta ottenuta la permuta si placherà la rabbia che abita il mio cuore? Oppure mi sentirò autorizzato e tenuto a pacificarmi col mondo illuminato dal mio comportamento “politicamente corretto”?
“Pazienta per un poco: i calunniatori non vivono a lungo. La verità è figlia del tempo: presto la vedrai apparire per vendicare i tuoi torti” assicurava Kant, mentre il discusso drammaturgo francese Henry Becque ammonisce con cinica tristezza: “Con l’avanzare dell’età, ci rendiamo conto che la vendetta è ancora la più sicura forma di giustizia”, l’amico Ghershom Freeman, con sottile allusione storica, ribadisce: “Sono nato il 5 novembre e, se è vero che nulla accade per caso, che posso mai pensare della vendetta?”, forse è proprio questo il motivo che l’ha indotto ad allontanarsi ancor di più dal “mondo civile” nascosto in qualche luogo sperduto dell’entroterra calabro.
Per un Pensiero Altro è la rubrica filosofica di IVG, a cura di Ferruccio Masci, in uscita ogni mercoledì.
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