“L’atto eroico consiste appunto nel superare il padre, che è proprio colui che lo espone ai pericoli e gli impone le imprese da compiere” scrive Otto Rank in “Il mito della nascita dell’eroe”. Se quanto afferma lo psicanalista austriaco è corretto, diviene interessante riflettere sul carattere conflittuale e dinamico all’origine di ogni eroe soprattutto in un tempo come il nostro nel quale, a mio modo di vedere, gli eroi latitano inghiottiti dalla confusione del vociare indistinto di troppi urlatori pseudo protagonisti del “mercato mediatico”. A margine della nostra riflessione lasciamo le battute di Galileo e del suo assistente nell’omonimo testo teatrale di Bertold Brecht. Afferma Andrea rivolto al maestro dopo l’abiura: “Sfortunata la terra che non ha eroi”, a lui replica lo scienziato: “No, sfortunata la terra che ha bisogno di eroi”. Per ora limitiamoci alla mesta considerazione che effettivamente la terra è sfortunata in quanto è più che evidente che ha sempre avuto bisogno di eroi, se per eroe si intende chi è disposto addirittura al sacrificio estremo a vantaggio dell’umanità, ma rimandiamo un più specifico approfondimento ad un altro momento e torniamo all’eroe rankiano.
L’archetipo dell’eroe, pur nelle sue infinite variabili, presenta delle costanti; una delle più rilevanti è proprio nella nascita, esso, infatti, è sempre generato dall’unione di un dio e di una mortale e, con significativa minor frequenza, da una dea ed un mortale. Ci limitiamo a riflettere sul primo e più significativo rapporto precisando che la mortale deve essere “madre conservando la condizione virginale”. Non me ne vogliano coloro i quali avvertono come sminuita l’eccezionalità della nascita del Cristo, a conferma di ciò che ho affermato sarà per chiunque facile ricercare quanti, ben prima dell’evento formidabile alla base della futura religione cristiana, siano stati i bimbi generati i tal modo, questo nulla toglie alla figura divina di Gesù per i credenti, in questa scritto, non è forse il caso di precisarlo, ci occupiamo del mito, delle sue radici in ottica antropologica e psicologica e, in tale prospettiva, nel mito rientra anche quello cristiano. In tutte le diverse occasioni è presente un “padre terreno” ma con un ruolo irrilevante, il rapporto cruciale è fra il dio ed il nato attraverso “l’immacolata concezione” che non riveste caratteri “pseudo-etici” tesi a demonizzare l’atto sessuale, come spesso è avvenuto nel cascame bigotto e ignorante di molti spaventati censori, ma vuole sottolineare l’anomalia, la singolarità dell’evento formidabile, “diverso dal normale, estraneo alla regola”. Nulla di più anarchico e rivoluzionario che infrangere ogni regola senza ricorrere a violenza e prevaricazione, ma abbandono subito il percorso ideologico per tornare più strettamente al tema. Anomala la vicenda di Eracle: Zeus si unisce ad Alcmena aggirandone la fedeltà verso il marito Anfitrione, è quindi Era, compagna tradita e furibonda, che interviene in appoggio di Euristeo che recita il ruolo di re-padre sottoponendo il giovane eroe a terribili fatiche. Eppure, anche in questa anomala variante, rimane costante il rapporto complesso tra il genitore divino ed il figlio incaricato di una missione davvero complessa: cancellare il “vecchio ordine”, quello del padre, per instaurarne uno nuovo ma sempre come espressione della volontà del padre stesso che ha innescato il complicato processo.
La vita dell’eroe, è importante sottolinearlo, che non ha scelto lui così come non è responsabile dell’anomalia della propria nascita, procede segnalandone in più modi l’eccezionalità. L’essere diverso non è sempre piacevole per un giovane, anzi, proviamo ad immaginare un adolescente costretto a rendersi conto di essere “altro rispetto agli altri”, forse capace di comprendere e desiderare ciò che a loro non è concesso, ma pur sempre nella condizione di non poter essere normalmente condiviso. Un’infanzia ed una adolescenza che devono accompagnarlo alla progressiva presa di coscienza della propria anormalità. Forse agli occhi di chi lo ha conosciuto adulto e vincitore l’essere eroe è una condizione estremamente gratificante, ma il lungo e doloroso viaggio per raggiungere una meta deliberata da altri non è certo stato piacevole. In tutte le diverse narrazioni della nascita dell’eroe, questi “diviene ciò che era, è e sarà” solo attraverso una lotta, attraverso il dolore, soffrendo e interrogandosi sulle ragioni che giustifichino tanta fatica fino a dover accettare l’idea di essere figlio di un “padre divino” e non del proprio genitore terreno. È proprio nella faticosa battaglia con il mondo circostante, nell’impegno a cambiarlo nelle sue fondamenta etiche e culturali che l’eroe, trasformando la realtà, trasforma se stesso. Ora solo una sussurrata considerazione a margine: l’eccezionale percorso dell’eroe è, a mio modo di vedere e previa i necessari aggiustamenti, il medesimo cammino di ogni giovane che si trova a misurarsi con il mondo che gli è stato dato e che, spesso, riconosce come non del tutto adeguato alle proprie aspettative. Ciò che mi sembra terribilmente malinconico nel nostro tempo è proprio l’appiattimento del giovane sul mondo che si trova già dato, l’immedesimarsi completamente in esso, l’assumere anche i comportamenti dissociativi secondo le modalità deliberate dal sistema, riconoscendosi in aspirazioni vecchie e scontate che traveste, autoingannevolmente o forse connivente, come proprie.
Arriviamo così ad un punto cruciale, il passaggio dall’adolescenza alla maturità dell’eroe, il momento in cui risulta vincitore e può instaurare il nuovo regno. Sarebbe interessante analizzare anche il cosiddetto “complesso di Isacco” che affligge il figlio del tutto soggetto e subalterno alla figura paterna, forse condizionato dalla paura, pachad, per dirla secondo il testo sacro; oppure “il complesso di Peter Pan” che, confinando l’eroe in una sorta di perenne adolescenza, lo solleva dal risolvere il rapporto col padre; ma torniamo al caso oggetto di queste righe. Intanto la madre, che nel frattempo ha perso la propria verginità anche se il fatto non crea ostacoli al perpetrarsi delle dinamiche convenzionali al mito, non riveste più funzioni centrali, in un sistema ormai “maschilizzato” diviene “delicata e sensibile mediatrice” ma rinuncia ad un ruolo autonomo, fortunatamente da molti decenni la presa di coscienza della propria centralità è un dato del mondo femminile anche se, troppo spesso, assumendo le vesti del maschile, ma è una questione troppo complessa per risolverla in poche righe, ricordiamoci che nella nuova realtà eroe non significa maschio e per ora ci basti. Ciò che mi sembra più rilevante è spostare lo sguardo dalla battaglia in generale ai nemici che ci scegliamo nel corso della stessa. Se è vero che “solo nella battaglia l’eroe diventa eroe e trasforma la propria natura” ma “egli stesso viene trasformato da ciò che lui ha trasformato liberandolo” appare chiaro che, se il mio obiettivo è “liberare la principessa prigioniera del drago”, melotragicodramma nel quale il drago è il padre e la principessa l’esca collocata da lui stesso, di certo la vittoria dell’eroe sarà una conferma del progetto paterno, se, al contrario, sarà l’eroe a comprendere chi è il nemico ed a scegliere chi e come combattere, la battaglia sarà già di per sé una vittoria. L’eroe si trasforma in soggetto consapevole, ammazza il padre non negandolo ma riconoscendo il proprio agire come un momento di passaggio, superamento e conservazione del viaggio verso la fondazione della nuova realtà che è sempre e comunque espressione del suo sguardo. Credo sia proprio di questi “eroi comuni” che abbiamo bisogno, uomini e donne consapevoli di sé, capaci alle scelte, disposti alla lotta, che non è violenza e prevaricazione specie se si riconosce in sé il campo di battaglia.
Per un Pensiero Altro è la rubrica filosofica di IVG, a cura di Ferruccio Masci, in uscita ogni mercoledì.
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