“San Francesco benedetto, che voltafaccia è il tuo! Rosalina, che amavi con tanto ardore, l’hai scordata così presto? L’amore dei giovani allora non sta nei loro cuori ma nei loro occhi” Cosi Frate Lorenzo riprende Romeo che gli sta chiedendo di unirlo in matrimonio con Giulietta, sottolineo che si tratta solo del giorno successivo a quello in cui il giovane ha versato fiumi di lacrime al cospetto del frate per l’amore non corrisposto da Rosalina. È chiaro che stiamo parlando di una delle più (o meno) conosciute tragedie di William Shakespeare, scritta alla fine del 1500 ed ambientata a Verona. La situazione è classica, già presente in Senofonte, in Ovidio, in Dante, in Masuccio Salernitano, si tratta della rivalità fra due famiglie, nel nostro caso Capuleti e Montecchi. Il giovane Romeo è, nelle prime battute della tragedia, perdutamente innamorato ma non corrisposto da una fanciulla imparentata con i “nemici” Capuleti, Rosalina. Straziato dal dolore si aggira solitario nella notte fino a che viene trascinato, soprattutto grazie alle insistenze affettuose del cugino Benvolio, ad una festa dove la ragazza sarà presente ma, come non riconoscersi nelle parole di Frate Lorenzo, appena vista la nemmeno quattordicenne Giulietta ecco che Rosalina scompare e l’unico amore del giovane è tutto per la seconda, neanche a dirlo, un’altra adolescente della famiglia Capuleti.
Che Romeo insista nell’innamorarsi di fanciulle a lui precluse a causa della faida tra le famiglie è abbastanza comprensibile: ciò che è vietato è sempre più ambito, specie se sei un adolescente. Che la componente sessuale sia fondamentale lo si può comprendere anche ricorrendo alle numerose allusioni del testo, “Taglierò il capo a tutte le vergini – afferma Sansone per poi precisare – […] Il capo della loro verginità […] finché ce la faccio a stare saldo; e si sa che sono un bel pezzo di carne”; “Se lei davvero fosse una eccetera aperta – dichiara Mercuzio – e tu una pera spadona” solo per citare qua e là. Ma ci interessa di più la riflessione introdotta dalle sagge parole che Benvolio rivolge al cugino per consolarlo del dolore che gli genera Rosalina: “Ma via! Un fuoco si estingue al bruciare di un altro, una pena è lenita dall’angoscia di un’altra; se hai il capogiro, ti gioverà voltarti indietro; un dolore disperato trae rimedio dallo struggimento di un altro”. La vicenda si aggroviglia secondo il gusto dell’epoca e dell’autore fino a raggiungere il tragico epilogo certamente noto a tutti, i due giovani, già uniti segretamente in matrimonio, muoiono: Romeo avvelenandosi e la sua sposa ricorrendo al pugnale del defunto marito, entrambi disposti a rinunciare ad una vita senza l’altro, partner col quale avevano condiviso solo pochi fugaci momenti. Mi sembra lecito, parafrasando Manzoni, domandarci: fu vero amore? Accettando la nota conclusione: ai posteri l’ardua sentenza.
Non addentriamoci nell’analisi del valore dell’autore che siede nel pantheon dei giganti, ma i nani sulle spalle di giganti, i posteri, appunto, possono essere oggetto della nostra riflessione senza incappare in eccessivi pericoli di scomunica. Ebbene, i posteri hanno definito unanimemente la vicenda di Romeo e Giulietta non solo vero amore ma addirittura uno dei più grandi della storia del teatro. Ora, possiamo chiederci perché nessuno ricorda il ruolo di Rosalina o sottolinea la volubilità di Romeo e la facilità con la quale lui e Giulietta si innamorano? Perché non si coglie l’aspetto più grottesco che tragico del finale? Perché se fossero tua figlia o tuo figlio a comportarsi come i due “immortali” della tragedia definiresti il loro sentimento senza alcun dubbio come una “cotta passeggera”? E come sarebbe stato giudicato un tale amore se i protagonisti non fossero morti? Come potremmo plausibilmente immaginare il prosieguo della vicenda specie conoscendo la facilità con la quale nascono si mutano i sentimenti nei due? Forse che “i posteri” hanno voluto leggere l’opera in chiave proiettiva? Ipotesi gravida, a mio vedere, di spunti psicologici: “Adulti affascinati da un sentimento che vedono compiuto in due adolescenti fino ad innalzarlo a sublime esempio”; non merita una attenta riflessione? Ma siamo certi che fosse davvero questo l’intento dell’autore? Credo sia interessante ascoltare le parole pronunciate da Frate Lorenzo nel momento in cui acconsente ad unire in matrimonio i due giovani: “C’è una ragione per cui voglio aiutarti: il vostro matrimonio potrebbe forse mutare il rancore delle vostre famiglie in affetto sincero”. E se la vicenda d’amore fosse lo strumento accattivante per sottolineare la stupidità delle lotte di potere?
Certo, i temi divengono ancor più ampi e complessi, nessuna pretesa di esaurirne l’analisi, ma chiediamoci: sarà un caso che la vicenda è ambientata in Italia, il paese per antonomasia dei Guelfi e dei Ghibellini, senza scordare che i termini sono di origine tedesca? Ma il messaggio shakespeariano mi sembra ancora più sottile: nell’opera è evidente che i “vecchi” Montecchi e Capuleti fossero intenzionati a raccogliere l’invito del Principe, il simbolo del potere, a dimenticare gli antichi rancori, chi non vuole rinunciare alla contesa sono i giovani più aggressivi ed i servi ignoranti. Forse l’autore ci sta facendo notare che sono i mediocri che hanno urgenza di individuare un nemico per inventarsi una qualche identità, tanto che rilevante diviene non più chi sei ma quale nemico ti scegli. Chi esiste solo riconoscendosi come “nemico di” non può rinunciare al risentimento, se lo facesse subito dovrebbe riconoscersi come nullità, dovrebbe rendersi conto di non essere in grado di proporsi come “qualcosa in sé” ed ecco che uno scontro di poteri gli consente l’auto-inganno dell’essere “in realtà”, potremmo definirlo un primo esempio di realtà virtuale ante litteram. E torna alla mente il noto adagio andreottiano: “Il potere logora chi non lo ha”, ma mi sembra evidente che il potere logora chi lo brama, chi ne è schiavo, chi ne è vittima chi vi si prostra in cerca di ruoli ma, e forse ancor di più, chi si convince o presume di esserne l’artefice. Quanto tendiamo ad auto-ingannarci pur di partecipare alla farsa collettiva, fino a celebrare il potere, fino a riconoscere solo nella morte l’eternità di un sentimento, chissà, forse non ci resta che l’auto-ironico e pietoso sorriso che ci permette di affermare che l’amore eterno esiste ma non dura.
Per un Pensiero Altro è la rubrica filosofica di IVG, a cura di Ferruccio Masci, in uscita ogni mercoledì.
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