Savona. Ristorazione e logistica sono i due settori nei quali sono impiegati due lavoratori che sembrerebbero essere vittima di sfruttamento del lavoro (secondo l’articolo 603 del codice penale). E’ quanto emerso dalla “Week of action” (da martedì 21 a venerdì 24 settembre) in cui gli ispettori del lavoro di Savona sono scesi in campo per realizzare la campagna di sensibilizzazione “Rights for all seasons“, mirata all’emersione del caporalato secondo il motto “Lavoro più equo per tutti”, promossa dall’Autorità Europea del Lavoro.
L’iniziativa, che vede la sede locale dell’ispettorato un apripista a livello nazionale, riguarda i lavoratori stagionali e i datori di lavoro dei settori agroalimentare, edile, turistico e tutti quei comparti nei quali il lavoro stagionale transfrontaliero è più diffuso.
La spinta propulsiva alla partenza della campagna arriva dalle linee guida emesse dalla Commissione Europea nel luglio 2020 con “lo scopo di ottenere – spiegano Maria Teresa Scardi (direttore dell’ispettorato del lavoro), Natalia Paturzo (responsabile del nucleo ispettivo) e Maria Teresa Ricca (ispettore del lavoro) – impegno concreto degli stati membri affinché si ottenga la piena tutela dei lavoratori stagionali transfrontalieri la cui posizione è messa a rischio dalla pandemia. Abbiamo cercato in qualche modo di affrontare un tema che è spesso trascurato: lo spostamento dei lavoratori stagionali all’interno del territorio europeo”.
L’attività ha coinvolto tutto il personale dell’ufficio ispettivo coadiuvato dai mediatori culturali. I lavoratori con cui hanno avuto contatti sono stati circa 40 per un totale di 10 aziende. Una modalità innovativa in cui è stato possibile cambiare prospettiva: non un’azione mirata a reprimere, ma a sensibilizzare sia il lavoratore che il datore di lavoro stesso rendendoli consapevoli dei loro doveri ma soprattutto dei loro diritti e dei vantaggi di cui potrebbero giovare entrambi se fosse regolarizzata la posizione lavorativa e, di conseguenza, contributiva. “E’ stata una rivoluzione copernicana”, così la definisce Natalia Paturzo.
“Abbiamo utilizzato un approccio empatico”, spiegano le ispettrici del lavoro coinvolte nell’attività. “L’avvicinamento con i lavoratori – proseguono – non è avvenuto dove lavorano ma nei posti che sono soliti frequentare e rappresentano per loro luoghi di aggregazione, permettendo così a loro di non sentirsi eccessivamente sotto pressione e relativamente liberi di poter raccontare la loro esperienza”.
Più nel dettaglio, “uno dei due lavoratori (senza permesso di soggiorno) – spiegano le responsabili del progetto – veniva portato al mattino col furgoncino e faceva consegne per tutto il giorno per un compenso di 30 euro (in nero) e non otteneva il contratto perché ricattabile. Nell’altro caso, invece, era indicato un orario di lavoro poco credibile rispetto a quello svolto realmente (3 ore dichiarate contro le 15 effettive)”.
“A causa della barriera linguistica – spiega Maria Teresa Ricca – non riescono a capire la portata e l’ampiezza dei propri diritti. Il soggetto extracomunitario è quello più fragile”. L’emersione dello sfruttamento è anche occasione per regolarizzare la propria posizione: “I lavoratori possono ottenere un permesso di soggiorno speciale laddove ci sia una collaborazione del lavoratore a fare emergere condizioni di sfruttamento della manodopera. Ma loro non lo sanno – ribadisce -. Quando le possibilità vengono prospettate da un soggetto madrelingua diventano coscienti dei diritti e degli obblighi e si relazionano con le persone in maniera meno diffidente“.