“[…] con gli Ebrei si inizia la rivolta degli schiavi nella morale: rivolta che ha dietro di sé duemila anni di storia e che oggi abbiamo perso di vista solo perché essa ha vinto” scrive Nietzsche in Genealogia della morale [1887] in riferimento a quello che definisce “il tronco dell’albero della vendetta e dell’odio giudaico”, il ressentiment. Non utilizzerò che una riga per chiarire che nulla di questo ha a che fare con l’antisemitismo anche se qualche facilone o in malafede si ostina ad affermarlo. Il termine ressentiment non indica quanto le varie traduzioni nelle diverse lingue stanno a significare nell’uso convenzionale, si riferisce ad un particolarissimo “meccanismo più o meno consapevole di difesa” nei confronti di chi o cosa è stato individuato come responsabile della propria frustrante condizione di minorità. È figlio dell’invidia e dell’incapacità di responsabilizzarsi verso se stessi, della più facile operazione di investire qualcosa di esterno come causa di uno stato di infelicità. In Genealogia della morale Nietzsche anticipa questa prospettiva, verrà sviluppata ulteriormente in Al di là del bene e del male e ripresa più volte nel corso delle opere successive, ciò sta a significare, senza ombra di dubbio, che il tema era considerato dal filosofo un elemento fondamentale nello sviluppo del suo pensiero. In verità la questione era già presente nella Fenomenologia dello Spirito in Hegel, con i dovuti distinguo, mi riferisco al rapporto servo signore ma le prospettive erano e sono profondamente diverse. Ciò che per Hegel era la “non paura della morte”, la scelta del signore, diviene nell’oltre uomo nietzscheano il “coraggio alla vita”, l’inizio del viaggio verso il superamento dell’uomo comune, la sconfitta del ressentiment.
Penso si possa affermare che “l’uomo nuovo, quello che ancora deve arrivare”, non è chi non ha paura di morire e che pure, nello schema hegeliano, cadrà in balia del suo servo, ma chi, vincendo la paura di vivere, non ha bisogno di nessun subalterno, anzi, proprio riconoscendo in ogni uomo il suo stesso diritto alla vita, cancella la necessità di una qualsiasi “struttura o ente” al di sopra dell’uomo. So bene di presentare in maniera personalissima e, ovviamente, opinabile la celebrazione di un mondo di uomini senza un potere di nessuna natura al di sopra degli stessi, così come sono consapevole che in questa ottica la vita, per essere “autentica”, come scriverebbe Heidegger, richiede una grande dose di coraggio. In verità abbiamo tutti paura di vivere, questo non significa che non si sia coraggiosi, al contrario, solo avvertendo la difficoltà la si può superare. Il pensiero dominante induce alla cecità, alla banalizzazione della vita: “Tutti viviamo, è la cosa più semplice e comune, non richiede alcuna competenza” afferma “il non pensiero”, nulla di più ingannevole. La vita è un esperimento complesso, mai certo e mai scontato, un continuo misurarsi; non consente scuse o giustificazioni, perdoni o facili consensi, è un dinamico confronto con l’altro da sé che non ti può confermare grazie al giudizio altrui ma solo nella auto-consapevolezza di te. Certo, “le mosche del mercato” possono disturbare ma non si può prestare troppa attenzione al loro fastidioso vacuo e perenne brusio di sottofondo. Le mosche sono malate del ressentiment, sono figlie di un ego debole, velleitario e spesso narcisista, incapace alla responsabilità, che non sa accettare i propri fallimenti e, afflitto dall’invidia, si accoda agli innumerevoli “per trascinare nel fango chi eretto e felice cammina con le proprie gambe senza curarsi degli schizzi di fango che i suoi piedi sollevano ad ogni passo tra la melma della mediocrità”.
Credo sia più che evidente che questo percorso argomentativo si possa ramificare in innumerevoli ambiti: etica, teologia, sociologia, antropologia, filosofia della storia, politica … e potrei proseguire, impossibile anche solo ipotizzare di intraprendere ogni itinerario, limitiamoci ad alcuni interrogativi, almeno per ora. In che senso va intesa la definizione di ressentiment come “il tronco dell’albero della vendetta e dell’odio giudaico”? Quale prova possiamo addurre a sostegno di tale tesi? Bene: un esempio evidente è riconoscibile nel fatto che sia il risentimento che muove i dittatori, uomini piccoli e mediocri ma che ben rappresentano la frustrazione ed il riscatto per i molti che si accodano. Le nullità improvvisamente innalzate al ruolo al quale si sentono arrogantemente idonee, immediatamente traboccano nel delirio dell’onnipotenza, Hitler ne è l’esempio perfetto, come Stalin, per citare i più noti. È questo l’aspetto degenerato dell’ugualitarismo, le infinite varietà dello stesso non possono trovare analisi in questo momento, è la celebrazione della “maggioritaria mediocrità” l’obiettivo della quale non è elevare il mediocre che viene celebrato come “popolo” ma umiliare chi si sa superiore fino a renderlo schiavo nella melma olezzante della massa. La qualità sopraffatta dal numero. Ora è doveroso chiedersi chi decide circa la qualità?
Interrogativo subdolo, quello che è certo è che non può essere una quantità di incompetenti. Ricorriamo ad una allegoria: un “uno”, appena di poco superiore ad innumerevoli “zeri”, mosso dal ressentiment nei confronti degli otto e dei nove, raduna attorno a sé la frustrazione vigliacca degli zeri divenendo centomila. Il suo strapotere è evidente, l’uguaglianza tra gli zeri ieratizzata, il suo ruolo legittimato, non resta che emarginare e punire chi non si adegua. Oltretutto ogni zero sa di essere, oltre che uguale alla moltitudine, anche ad un passo dal vertice, l’uno, che, in fondo, non è poi così diverso da lui. A questo punto la domanda potrebbe così essere posta: Chi fa la storia? L’eroe, il dittatore o gli zeri che gli si accodano? E mi tornano alla mente le parole dell’amico Gershom Freeman che mi ricorda sempre di essere nato non casualmente il 5 novembre: “Non sempre l’ombra più lunga appartiene alla persona più alta, molto dipende dalla luce che l’accompagna”. Non sarà una luce fuori di noi ad allungare a dismisura la nostra ombra, non sarà un “lume di chiesa o d’officina che alimenti chierico rosso o nero” come perfettamente ammoniva Eugenio Montale. Nietzsche la riconosce nella cultura giudaica Michel Onfray la individua nella “sinistra del risentimento”, entrambe in quell’atteggiamento snobistico e saccente innervato da un populismo tanto bieco quanto negato che caratterizza tanta cosiddetta “intellighenzia autoreferenziale che non si sporca le mani a contatto della vita vissuta ma si narcotizza nei salotti buoni in attesa di essere invitata in qualche talk show per vomitare banalità erudite”, nulla di nuovo purtroppo, solo più visibile grazie ai mass media. Di certo se ancora ci potesse fare compagnia l’amico Montale si negherebbe a un tale mercato ribadendo che “[…] l’orgoglio non era fuga, l’umiltà non era vile, il tenue bagliore strofinato laggiù non era quello di un fiammifero”.
Come non riconoscere l’attualità del ressentiment? Come non raccogliere l’invito alla pienezza della vita che diviene degna solo se liberata da un simile sentimento? Non si tratta di celebrare la bestia bionda che la stupidità dei dittatori ha trasformato in un mostro prevaricante, ma di coglierne lo sguardo profondo e sereno, lo sguardo di chi non invidia e che non promuove cruente rivoluzioni ma la sola e più assoluta, quella che riporta il valore dell’uomo nell’uomo. Se nessuno desidera il potere, la fama, la ricchezza, che valore avranno mai? Sono loro i mostri ingannevoli che hanno sede fuori dall’uomo ma ne abitano lo spirito se afflitto dalla più orribile delle malattie: il ressentiment.
Per un Pensiero Altro è la rubrica filosofica di IVG, a cura di Ferruccio Masci, in uscita ogni mercoledì.
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