Andora. Si è chiuso con una sentenza di assoluzione “perché il fatto non sussiste” il processo che vedeva a giudizio un medico di famiglia, la dottoressa Alessandra Barberis, per la morte di una donna di 63 anni, Marisa Frigerio, che nel marzo del 2012 era stata stroncata da un’emorragia interna nella sua villetta in via del Lampin ad Andora.
Secondo la tesi dell’accusa, l’imputata aveva sottovalutato le condizioni della paziente che si era procurata un trauma cadendo dieci giorni prima della morte. In particolare la Procura contestava al medico di non aver sospeso la cura di antiaggreganti (il “Plavix”) che la signora Frigerio assumeva abitualmente. La tesi del pm (che al termine delle sua requisitoria aveva chiesto una condanna a 4 mesi di reclusione) era che fosse stata proprio l’assunzione di quel farmaco ad impedire che l’emorragia interna si arrestasse. Di qui la contestazione di omicidio colposo che però è caduta al termine del dibattimento.
Un ruolo determinante è stato giocato dall’esito della perizia disposta dal giudice Francesco Giannone che non ha ravvisato nessun nesso di causalità tra la mancata sospensione dell’assunzione del farmaco e l’emorragia fatale per la signora. Tra l’altro, quando era stata sentita in aula, la dottoressa Barberis aveva riferito di aver comunicato alla paziente di sospendere l’assunzione del farmaco antiaggregante, ma di non averlo indicato sulla prescrizione che le aveva consegnato.
Secondo la tesi sostenuta dal difensore del medico, l’avvocato Riccardo Preve, e dal consulente di parte, a provocare l’emorragia poteva essere stato anche un trauma di altra natura. La difesa, in estrema sintesi, si snodava intorno a due punti: per prima cosa si sosteneva che, anche nel caso in cui la paziente avesse continuato ad assumere il farmaco, questo non avrebbe potuto favorire l’emorragia fatale (come confermato anche dalla perizia) e, in seconda battuta, si contestava anche la ricostruzione del pm secondo cui la lesione interna della signora Frigerio dopo la caduta, di fatto, non avrebbe mai smesso di sanguinare.
Se così fosse stato infatti – sempre secondo la difesa – la donna sarebbe stata male ed avrebbe lamentato sintomi ben precisi: invece nei dieci giorni trascorsi tra la caduta e la morte, a parte un dolore al fondoschiena, la sessantenne (i cui famigliari si erano costituiti parte civile nel processo con gli avvocati Francesco Bruno e Franco Vazio) sarebbe stata bene.
Alla fine del processo la dottoressa non ha voluto nascondere quanto questa vicenda giudiziaria l’abbia provata: “Oggi finiscono quattro anni davvero durissimi. Ci tengo a ringraziare l’avvocato Preve per la preparazione, la tenacia e la capacità con cui ha seguito questo caso che ha preso molto a cuore. Per come credo io nella mia professione confidavo in questo esito del processo: io lavoro ogni giorno per aiutare le persone, non per farle stare male”.


