Per comprendere

Profughi nei centri di accoglienza, un operatore: “Non fanno paura, vi spiego perché”

Profughi: tunisini partiti da Osiglia e diretti ad Albenga

Albenga.Gli stranieri ‘delinquenti’, quelli che spacciano e che creano nella popolazione un clima di incertezza, non sono rifugiati: non fanno parte di centri di accoglienza, non ricevono cibo o denaro dallo Stato. Sono persone che non sono mai entrate in questo sistema. Gli stranieri che accogliamo e sfamiamo sono aiutati ad inserirsi, e seguono un percorso completamente diverso“. Lo spiega Pierpaolo Barnieri, operatore della Caritas, in una lunga intervista nella quale tenta di chiarire la complessa macchina che si muove dietro “l’emergenza profughi”.

Barnieri è il fondatore dell’associazione “Giardino di Emma” e partecipa ad Albenga e comprensorio all’accoglienza dei migranti, sia per quanto riguarda il CAS (Centro Accoglienza Straordinaria, quello che una volta era Mare Nostrum) sia per il progetto SPRAR (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati). CAS è il primo “livello”, SPRAR il secondo: quando un profugo arriva viene accolto nei CAS, lì fa domanda di asilo politico e, se la domanda viene accolta, entra nel sistema SPRAR.

“Al loro arrivo i profughi vengono inseriti nei centri di accoglienza, gestiti al 90% dalla Chiesa – racconta Barnieri – qui vengono fotosegnalati e viene fatto loro un protocollo sanitario che serve a proteggere sia la cittadinanza che gli operatori che lavorano a contatto con loro. I cittadini dunque non devono temere: eventuali soggetti malati vengono immediatamente individuati e curati, e non ci sono pericoli per il territorio“.

A quel punto viene dato ai profughi un kit sanitario, gli viene assegnato uno spazio dove stare e data la possibilità di chiamare casa o un’altra persona cara. Il vero problema nasce subito dopo, spiega Barnieri, ed è legato proprio alle tempistiche: “Da quando parte la richiesta di asilo a quando il rifugiato entra fattivamente nello SPRAR passano mediamente 10-12 mesi – rivela – ecco perché la gente li avverte come ‘mantenuti’ a spese dello Stato. In realtà non è una loro scelta, finché la domanda non viene esaminata sono in un ‘limbo’: non vengono rimpatriati ma non possono cercarsi un lavoro né rendersi indipendenti in alcun modo“.

La domanda viene esaminata da una commissione internazionale, composta da 5 persone, e lo status di rifugiato viene accordato solo se risponde a requisiti stringenti: “Lo straniero deve essere effettivamente in pericolo di vita nel proprio Stato, e attraversa degli step volti a capire di che tipo di persona si tratta e se è in grado o meno di integrarsi in modo corretto”. Tradotto, se è una brava persona o un delinquente.

“Quindi, tipicamente, i profughi che effettivamente rimangono sul territorio grazie allo SPRAR sono di una ‘qualità’, se mi passate il termine, decisamente più alta“. Due esempi sono proprio i due mediatori culturali che lavorano con XY. “Uno è afgano, una persona splendida di cui mi fido ciecamente e a cui affiderei mia figlia. L’altro arriva dalla Costa d’Avorio e ha una formazione decisamente superiore alla media. Entrambi sono diventati figure cardine per noi”. Le famose “risorse” di cui parla chi preme per accoglierli.

Ma la volontà di accogliere deve esserci fin dal primo giorno, dall’ingresso nel CAS: “Ogni straniero nel sistema di protezione è stato prima un ‘semplice’ rifugiato del Centro. E in ogni caso, anche quando abbiamo a che fare con stranieri ‘difficili’, cerchiamo sempre di trovare una strada per integrarli: ogni tanto ci riusciamo, e anche una sola vita ‘salvata’ ha un grande valore”.

Eppure si dice che i profughi esigono il cellulare, protestano per i wifi, si lamentano del cibo. “Casi isolati che esistono, certo – ammette – d’altronde i profughi del CAS sono di ogni tipo, tra loro ci sono le brave persone ma anche gli sbandati o i delinquenti. Però, insieme al pocket money e al cibo, vengono date loro delle regole: e se non le rispettano vengono espulsi“.

Barnieri contesta, dati alla mano, chi parla di “invasione”: “Abbiamo 15 ospiti al Centro Accoglienza di Peagna, 8 uomini già inseriti nello SPRAR ad Albenga e 4 donne a Campochiesa. E attendiamo alcune famiglie che accoglieremo a Loano”. 27 persone in tutto il comprensorio: una cifra ben diversa dalla percezione della gente comune, che vede ogni giorno venditori abusivi, immigrati ubriachi e spacciatori sul lungofiume. “Il problema sta lì – annuisce Barnieri – in coloro che non sono mai entrati nel sistema di accoglienza, vivendo da clandestini. Sento dire che ci costano 35 euro al giorno, che li sfamiamo e diamo loro il cellulare: non è vero, lo facciamo solo con i pochi del CAS, che di certo non vanno in giro a delinquere”.

Insomma, i clandestini creano problemi al tessuto sociale ma, perlomeno, non vivono a spese dello Stato; mentre chi lo fa, normalmente, non rappresenta un pericolo per i cittadini. Il malessere tra gli italiani comunque è reale, e Barnieri lo giustifica: “Che ci siano una percezione di immobilismo e un disagio è innegabile. Questo è un momento difficile: credo che il sistema sia ‘in stallo’, e che non fornisca strumenti al passo coi tempi. Un esempio riguarda le forze dell’ordine: si fanno in 4, ogni volta che li chiamiamo ci sono, però gli strumenti che hanno a disposizione sono ormai obsoleti, tanto è vero che ogni loro arresto di solito si conclude con una scarcerazione entro poche ore”.

La soluzione? Ripensare giustizia, accoglienza e macchina burocratica per affrontare al meglio l’emergenza: altrimenti è come lottare coi mulini a vento. “Lo stesso coraggio che sto vedendo in Borghetti – conclude Barnieri – lo vorrei vedere anche nella politica e nelle amministrazioni”.

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