Carissimi golosastri,
visto che il tanto “CARO” sito italia.it mi fa riempire uno stomaco di bue, al posto della pancia, per fare la cima, io golosamente vi fornisco un altro utilizzo della suddetta pancia e lo stomaco lo lasciamo a chi vuole parlare di noi, ahimè, senza sapere.
Ecco a voi l’asado, piatto che evoca, già dal nome, terre lontane “conquistate” da molti nostri conterranei: l’emigrazione, alla fine dell’Ottocento, ha svuotato paesi e vallate della Liguria. Dall’entroterra si scendeva a Genova per imbarcarsi alla volta dell’America, in cerca di fortuna e una vita meno dura. Da questo passato sofferto, che ha dimezzato in pochi decenni la popolazione dell’Appennino, è arrivata a noi una pietanza nata lontanissima dalla Liguria. È l’asado, la preparazione tipica dei mandriani argentini. In quel paese andarono in moltissimi, soprattutto dalla Fontanabuona e dalla val Graveglia: cercavano terre da coltivare e pascoli abbondanti.
Una volta tornati a casa, gli emigranti introdussero questa preparazione così particolare. Con una variante, a dire il vero: se oltre oceano si è soliti cuocere un bue intero, con tanto di pelle, infilzandolo in due spade e lasciandolo esposto al fuoco, dalle nostre parti si è scelto (fondamentalmente per ragioni economiche) di selezionare i tagli da cuocere, puntando sulla pancia di vitello. L’asado nel giro di pochi decenni è diventato un piatto diffuso, protagonista di feste e sagre (la più antica è quella di Piano Battolla, a Follo). Anche perché farlo in casa, o per pochi, è praticamente impossibile. I grandi quadrati di carne vanno fatti cuocere per almeno sei ore, stesi su una graticola, con il calore (ma non con la fiamma) di un grande fuoco. La carne viene poi tagliata in fette più piccole, seguendo il disegno delle costole. La tradizione argentina, che in qualche caso viene ancora seguita, prevede di insaporire l’asado al termine della cottura con il cimiciuri: una ricetta segreta (o quasi), che prevede l’uso di aglio, rosmarino, olio e altri ingredienti.
Rimanendo su piatti oramai naturalizzati liguri, ma che arrivano da oltreoceano, ecco a voi il ciuppin, ovvero: pesce di scoglio, pomodoro, olio, cipolla, aglio e odori. Questi gli ingredienti base del ciuppin, la zuppa di pesce della quale ogni paese affacciato sul mare da Ventimiglia a Lerici si dichiara pronto a rivendicare la paternità.
Piatto di origine povera, il pesce utilizzato è quello rimasto in fondo alle cassette dei pescatori e dei pescivendoli: quei piccoli pesci di scoglio che danno un gusto e un profumo inconfondibile alla zuppa. Ma attenzione: più che una zuppa vera e propria, il ciuppin della tradizione è in realtà una sorta di brodetto, un passato di pesce. Si serve caldo, in piatti fondi e si mangia insieme a fette di pane raffermo e abbrustolito, o meglio ancora con le gallette del marinaio, che vanno intinte nel brodo. Dal gesto del pucciare il pane deriva probabilmente il nome, anche se per alcuni ciuppin ha origine da suppin, termine dialettale che indica la zuppa. Oggi nei ristoranti della Riviera si prepara utilizzando specie più pregiate di pesci, quali il dentice, la gallinella o i crostacei, ed è meno brodoso di quello che si cucinava in casa una volta, andando ad assomigliare sempre più al caciucco alla livornese.
Come molti altri piatti della nostra tradizione culinaria, anche il ciuppin è arrivato oltreoceano: nella baia di San Francisco si serve il cioppino una zuppa di pesce preparata con gamberi, cozze, aragosta, cipolle, pomodori, peperoni, aglio e tabasco, mentre a Seattle viene preparata solo con i crostacei.
